L’enologo francese racconta l’inizio di una piccola rivoluzione: controcorrente su dosaggi e lunghissimi affinamenti sui lieviti. “Il Pinot Nero? L’origine del problema sono i cloni, quelli utilizzati in Trentino non sono quelli più adatti al nostro stile”
Dieci mesi fa un cambio storico. La Ferrari di Trento ingaggia l’enologo Cyril Brun, che prende il timone di Ruben Larentis, dopo 37 anni di onorata carriera. Per la prima volta una cantina italiana strappa uno chef de caves francese importante, all’apice della carriera, da una delle maison più prestigiose della Champagne: Charles Heidsieck. Bicchiere alla mano, ci prendiamo un’ora buona per un confronto a tutto tondo. È nato ad Aÿ, nel cuore della Champagne, e parla già un ottimo italiano: diretto, esigente, senza filtri. I primi assaggi? Sono molto convincenti.
Stile Ferrari, quali modifiche ha apportato?
Ferrari ha già un’identità molto forte, abbiamo una cifra che dal Brut al Giulio si riconosce da lontano, ma dobbiamo fare di più. Ad esempio ci sono prodotti ancora troppo simili, come il Brut e il Maximum, occorre una maggiore differenziazione all’interno della gamma. Intanto, abbiamo lavorato sia sull’assemblaggio che sui dosaggi. E sulle modalità della pressatura.
Dosaggi erano troppo bassi o troppo alti?
Per me in passato erano troppo bassi, capisco che può essere uno choc per l’Italia. Ma lo zucchero non è nemico del vino, è una questione di equilibrio, in alcuni casi 5/6 grammi ci stanno tutti. Più basso è il dosaggio più alto è rischio di ossidazione e maggiore la solforosa. Prima si lavorava con un solo tipo di liqueur per tutta la gamma, ora facciamo una liqueur diversa per ogni prodotto. Lavoriamo su misura.
In base a cosa decide?
Tutte le mie decisioni partono dall’assaggio, non ho ricette fisse. La prima cosa che ho chiesto quando sono arrivato in Ferrari è dove fosse la mia sala di degustazione. Ho creato un panel di cinque persone, abbiamo fatto tantissime prove, di vinificazione, nuovi lieviti. Stiamo studiando anche nuovi tappi, microgranulati, che andremo a usare nei prossimi mesi.
Parola d’ordine?
Freschezza. Credo sia anche pericoloso andare troppo in là con affinamenti sui lieviti troppo lunghi per avere maturità. Può essere un’arma a doppio taglio, così come troppi batonnage.
Differenze tra gli appassionati italiani e francesi?
I francesi sono arroganti, pensano di sapere tutto su tutto (sorride, ndr). Penso che in Italia il pubblico e i consumatori siano più aperti. Sì, sono più propensi a cambiare la propria mentalità.
Che ne pensa del Trentodoc?
Per il Trentodoc da quello che ho assaggiato credo manchi un’identità globale, le differenze sono troppo grandi per avere una traccia comune. Ho assaggiato prodotti molto buoni ma li ho trovati molto diversi tra loro.
Prodotti così diversi rispetto agli Champagne?
In realtà se vediamo ph e acidità non siamo cosi distanti ma il risultato è diverso. La regola numero uno per me è non guardare i numeri, il vino si fa con il bicchiere in mano. Del Trentodoc mi affascina la possibilità giocare con le diverse altitudini, una cosa che non esiste nella Champagne. Parliamo di Montagne de Reims, ma è uno scherzo. Qui c’è una diversità profonda in base all’altezza più che in in base al sottosuolo. Molto più di quanto sia stato ancora esplorato.
Porterà la cultura dei parcellari in casa Ferrari?
Ho portato la mia visione che è la mentalità Champenoise e quindi la cultura dell’assemblaggio. Studieremo sempre più le parcelle, ma la variabile è troppo ampia, per me conta la qualità finale dell’assemblaggio. Ampliare la gamma di opzioni per poter prendere una decisione. Questa è la visione delle Maison de Champagne, a parte poche eccezioni.
Giocherà anche con l’ossidazione?
L’ossidazione non è nell’identità del Trentodoc, è l’inizio del difetto. Nel mondo delle bollicine il mantra è la bevibilità, se c’è troppa ossidazione poi nel bicchiere c’è una una saturazione. La faccio facile: mio nonno diceva che una buona bottiglia è una bottiglia vuota.
Non è un fan di Selosse, insomma.
No.
Cambi in vista sui vini di riserva?
Come dicevo, serve il maggior numero possibile di ingredienti a disposizione. I vini di riserva sono importanti e vanno tarati a seconda di un’annata calda o fredda. Con la vendemmia 2023 abbiamo raddoppiato i volumi dei vini di riserva e li aumenteremo ancora sensibilmente. Il 3/5% sulla massa non ha alcun effetto, dobbiamo arrivare almeno al 12% per avere più elementi e quindi più complessità.
In Italia è ancora poco valorizzato l’intervallo temporale successivo alla sboccatura, non trova?
Se penso alla nostra gramma, credo che dovremmo diminuire di qualche mese la sosta sui lieviti e allungare il periodo post sboccatura. Valuteremo caso per caso. Si può fare solo se sulla sboccatura avremo una gestione perfetta dell’ossigeno: jetting e uso di tappi specifici per garantire maggiore omogeneità di prodotto. Il nostro è un lavoro solo di dettagli.
Contento dei risultati sul Pinot Nero?
No. L’origine del problema sono i cloni, quelli utilizzati in Trentino non sono quelli più adatti al nostro stile per la spumantistica. In passato è stata fatta una selezione con cloni tedeschi, buoni per fare volumi, con alta concentrazione ma a volte manca maturità fenolica. Abbiamo ordinato diversi cloni per provare altri risultati, per avere buoni risultati dovremmo aspettare decenni.
Il Meunier è un’opzione?
Una delle tante, ma abbiamo già tracciato tantissime piste e vogliamo seguire quelle per non perdere la direzione. Può essere utile per avere un fruttato diretto, immediato. Ma allo stesso tempo sono convinto che non si può aver un buon potenziale d’invecchiamento se in una cuvée c’è più del 30% di meunier.
E sul Rosé come sta lavorando?
Sul Giulio Rosé ho fatto una rivoluzione, a quel prezzo dobbiamo dare di più, ci vorrà tanto tempo: il 2023 uscirà non prima del 2032. Credo che tra uva intera o uva pompata ci sia tutta la differenza del mondo (ci mostra sul telefonino la foto di due campioni, ndr). Alla fine tutto si risolve in qualità dell’uva e della pressatura.
Qual è il prodotto che le piace di più della gamma?
La Riserva Lunelli è il prodotto più raffinato ed equilibrato dell’azienda, praticamente l’unico che non ho cambiato. È esattamente come deve essere. Ovviamente mi piace molto anche il Giulio, ma può essere ancor più brioso, deve sempre avere l’effetto wow.
Vini italiani, che cosa ha in cantina?
Sono un grande fan di Barolo e Barbaresco. Un nome? Giacosa! Non amo i superstucan, mi piace quella rusticità tipica di alcuni grandi Sangiovese. I vini alla Parker non fanno per me.
Riferimenti tra le grandi maison di Champagne?
Sarò scontato ma dicoCharles Heidsieck e Roederer. Anche Bollinger mi sembra in crescita.
E tra i piccoli?
Da Paul Déthune ad Ambonnay e da Chartogne Taillet a Merfy. Se penso allo chardonnay, dico Guiborat, Doyard o Franck Bonville.
Parliamo franco. Non trova che etichette d’entrata delle grandi maison di Champagne abbiano mediamente un rapporto qualità-prezzo svantaggioso?
Vero. Il punto è che negli ultimi cinque anni il prezzo delle cuvée d’ingresso nella Champagne è cresciuto del 30%, trainato dall’impennata dei prezzi delle uve e dall’inflazione.
In chiusura, cosa manca al Metodo Classico italiano?
Si deve evitare il copia e incolla con lo Champagne. Qui ci sono identità diverse, quello che funziona in Francia non è detto che sia utile qui. Io non devo produrre uno Champagne, piuttosto usare la mia conoscenza della Champagne e metterla al servizio del territorio per un’identità ancora più netta. Mi hanno assunto perché volevano visione esterna ed esperienza internazionale per dare quel qualcosa in più.
Fonte: 25 Apr 2024, 18:01 | a cura di